A due giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca la minaccia di aumentare le tariffe del 10-20% sulle importazioni europee, e fino al 60% su quelle cinesi, è stata incorporata nelle previsioni sull’economia italiana dalla Banca d’Italia e in quelle del Fondo monetario internazionale (Fmi) sull’economia globale.
Le politiche protezionistiche annunciate dal prossimo presidente degli Stati Uniti colpirebbero soprattutto le piccole e le medie imprese e i loro subfornitori e potrebbero incidere in maniera significativa sulla crescita già stentata dell’economia nei prossimi anni.
PER LA BANCA D’ITALIA nel 2025 sarà dello 0,8% del Pil, per l’Fmi dello 0,7%. Su queste stime pesano i 22 mesi consecutivi di calo della produzione manifatturiera, la crescita della cassa integrazione e il rallentamento dei servizi. Nel corso dell’anno il rallentamento inizierà a pesare sulla crescita del lavoro povero registrata negli ultimi due anni, oggetto dell’instancabile propaganda da parte del governo Meloni e della sua maggioranza. Come per l’Istat anche per Bankitalia le prime vittime saranno i giovani che sono i più penalizzati in un mercato del lavoro profondamente squilibrato dove cresce l’occupazione degli over 50 mentre le donne sono le più colpite.
IL PROGETTO TRUMPIANO di un’economia deregolamentata, basata su una spesa pubblica erogata secondo i criteri di appartenenza politica, sono ormai una realtà per i mercati finanziari. Lo dimostra l’impennata delle valutazioni delle criptovalute e il balzo del valore azionario delle società – non solo quelle di Elon Musk, il proconsole tuttofare di Trump – che hanno finanziato la campagna elettorale di quest’ultimo.
Nella stessa prospettiva vanno intese le stime dell’Fmi. Dal suo punto di vista neoliberale le rappresaglie commerciali annunciate da Trump potrebbero violare l’illusione della concorrenza tra le nazioni. «Ridurranno gli investimenti e l’efficienza del mercato, interromperanno nuovamente le catene di approvvigionamento». I favori fiscali di Trump alle imprese e ai ricchissimi non solo dissolveranno l’ombra dell’equità fiscale negli Stati Uniti ma indeboliranno il ruolo dei Treasury statunitensi che sono i «beni rifugio» del risparmio globale. E infine c’è il rischio di un ritorno dell’inflazione dopo il ribasso registrato nell’ultimo anno.
QUESTA PROSPETTIVA è entrata anche nel primo bollettino economico dell’anno di Bankitalia. Dopo la Germania l’Italia è il secondo paese più esposto alla guerra dei dazi promessa da Trump. L’incidenza è pressoché raddoppiata dall’inizio dello scorso decennio: l’11% del totale delle esportazioni nel 2023 (63 miliardi di euro) varca l’oceano Atlantico.
A questo esito hanno contribuito il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, la robusta espansione della domanda americana e la ricerca da parte delle imprese italiane di mercati alternativi a quelli europei. Gli Stati Uniti sono il settimo paese per provenienza delle importazioni di beni (4% del totale, 20 miliardi di euro).
NELLA TEMPESTA si troverebbe una parte rilevante della piccola e media industria italiana, quella che alimenta sia l’export che il racconto ideologico su un’economia povera fatta di bassa produttività e bassi salari, cioè il «made in Italy». L’agroalimentare, per esempio. In tale caso l’export è di 57 miliardi di euro. I dazi faranno aumentare i prezzi per i consumatori americani e produrranno effetti negativi sulle filiere nostrane.
Il Veneto governato dai leghisti potrebbe essere azzoppato dall’amico americano. La Confindustria locale ieri ha auspicato un’intesa del governo con Trump. È uno degli scenari possibili. Non è escluso che l’Europa, un accrocco di egoismi e opportunismi, vada in mille pezzi e che i singoli paesi – per prima l’Italia di una Meloni trumpizzata – cerchino intese «speciali» e deroghe in base alle simpatie conquistate sul campo da golf in Florida.
ANTONIO TAJANI, vicepremier ministro degli esteri, ha detto di «sperare in una soluzione» dopo avere consultato le previsioni dell’Fmi e di Bankitalia. Non a torto Tajani ha detto di sperare nella differenza tra ciò che si dice in campagna elettorale e quello che si fa al potere. E ha assicurato che il governo sarà «pragmatico».
C’è il precedente del 2018. Allora ci furono le trattative tra Trump e la Commissione Ue Juncker. Allora si fece un accordo sul gas liquido e sui prodotti agroalimentari. Oggi si tratterà di finanziare l’industria della guerra attraverso la Nato. Sette anni fa il surplus commerciale bilaterale dell’Ue con gli Stati Uniti ha continuato a crescere. La prima amministrazione Trump non ha ottenuto il riequilibrio commerciale che cercava. Lo stesso potrebbe accadere al prossimo giro.
L’EFFETTO DEL TRUMPISMO va cercato all’interno: i dazi finanzieranno i tagli alle tasse che renderanno i ricchi più ricchi. Tutti gli altri lotteranno con i tagli ai servizi pubblici e gli «spiriti animali» di un capitalismo autoritario.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da Il Manifesto, che ringraziamo